9 novembre 2017 di concettoalota
IL DISASTRO AMBIENTALE / PRIMA PARTE

Aspettando la verità e le bonifiche da oltre mezzo secolo, abbiamo sommato migliaia di morti e un esercito di sofferenti a rischio tumori. Nella buona sostanza, i residenti nel territorio siracusano, siamo da considerare tutti ammalati cronici e terminali. Per decenni i colossi della chimica e della raffinazione hanno inquinato i corsi d’acqua, le falde acquifere, il mare e la terra. Un’apocalisse che inizia la sua corsa nel lontano 1949 con l’avvento della Rasiom di Angelo Moratti nella rada di Augusta. Ma lo spartiacque e la prova provata dell’avvelenamento che da sempre ha inquinato l’ambiente, è l’inchiesta nata per l’errore di un tecnico che voleva pulire con dell’acido la condotta in ferro, da dove il mercurio veniva scaricato in mare che diventò di colore rosso a causa della ruggine che si scioglieva e per questo denominata “Mare Rosso”. Un impegno davvero notevole per gli inquirenti della Procura della Repubblica di Siracusa e gli investigatori della guardia di finanza. E tutto questo, come dirà a caldo nella conferenza stampa il procuratore capo di allora, Roberto Campisi: “…con grande disprezzo della vita umana nello smaltimento dei rifiuti con tanta arroganza e un’inaccettabile logica”.
Nel mese di gennaio dell’anno 2003 scattò un’operazione, definita una delle più clamorose di mezza Europa, nel triangolo industriale di Priolo, Augusta, Melilli, denominata “Mare Rosso”, portata a termine dalla Guardia di finanza al comando dell’allora colonello Giovanni Monterosso, coordinata dal procuratore capo della Repubblica di Siracusa del tempo Roberto Campisi e condotta dal pm Maurizio Musco. Furono arrestate diciassette persone tra dirigenti e dipendenti dello stabilimento ex Enichem, ora Syndial, tra i quali il precedente e l’allora direttore, l’ex vicedirettore e i responsabili di numerosi settori aziendali, insieme a un funzionario della Provincia regionale di Siracusa preposto al controllo della gestione dei rifiuti speciali prodotti nell’area industriale.

Il principale capo d’imputazione contestato agli accusati dalla Procura della Repubblica di Siracusa il delitto ambientale previsto dall’articolo 53 bis del Decreto Ronchi, oggi art. 260 del Codice ambientale, per aver costituito una “associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito d’ingenti quantità di rifiuti pericolosi contenenti mercurio”. Secondo l’accusa il mercurio veniva scaricato nei tombini delle condotte di raccolta delle acque piovane e da lì finiva in mare. Un’altra via per liberarsi illegalmente dei rifiuti, secondo gli inquirenti, era quella della falsa classificazione e dei falsi certificati di analisi: in questo caso lo smaltimento avveniva in discariche autorizzate, ma non idonee a raccogliere quel genere di rifiuti che, per la cronaca, sono ancora lì giacenti. L’indagine è stata resa possibile grazie anche alle intercettazioni telefoniche e ambientali compiute anche nei locali all’interno del petrolchimico. Dopo il sequestro giudiziario e un lungo fermo, l’impianto Cloro Soda ripartì con una sola delle tre linee per essere poi fermato definitivamente nel novembre 2005: troppo inquinante, ma è grave il fatto di aver tentato di farlo continuare nella sua corsa criminale che non si può davvero sopportare. Inquinare, sapendo di avvelenare la gente.
Il sospetto nasce quando nel frattempo era partito un altro filone d’indagini a carico della vecchia Montedison, proprietaria dell’impianto Cloro Soda che, a leggere alcuni documenti segreti ritrovati (?) all’interno degli archivi della stessa società, dal 1958 al 1980 avrebbe scaricato in mare oltre 500 tonnellate di mercurio (ma in realtà saranno oltre 50.000, come vedremo più avanti). Per la Procura di Siracusa la scoperta bastò a far decadere buona parte delle accuse all’Enichem dell’indagine denominata “Mare Rosso”, in particolare l’associazione per delinquere, l’avvelenamento doloso del mare e del pesce, le lesioni personali per le malformazioni neonatali. Restava solo il traffico illecito dei rifiuti.
Ancora una strana coincidenza. I vertici dell’Enichem sotto la pressione giudiziaria, nonostante fosse caduta l’accusa delle lesioni per le malformazioni, decisero di corrispondere alle 101 famiglie dei bambini malformati, e alle donne che avevano preferito abortire prima della nascita di un figlio destinato a nascere malformato, un rimborso variabile in base alla gravità della malformazione, tra i quindici mila e un milione di euro, per un totale di ben 11 milioni di euro più le spese legali. Un caso unico, dove una società gravemente accusata, poi prosciolta, decide di risarcire le vittime di un inquinamento senza alcuna richiesta da parte dei danneggiati.
Quando il destino s’innesca con gli interessi e la politica. Secondo qualcuno nelle tematiche legate al caso Enichem-mercurio si troverebbero i primi semi della discordia di alcuni fatti sfociati nel Palazzo di Giustizia di Siracusa e che portarono alla fine al filone “Veleni in Procura”. Una lotta tra gli avvocati che esercitavano nello stesso studio. Ma di colpo è l’avvocato Piero Amara a essere nominato legale dell’Eni (tutt’ora) mettendo “da parte” i colleghi dello Studio Grasso di Catania, diventando così l’unico attore della scena di una storia senza fine, che si occupò del pagamento dei danni subiti verso le malformazioni e gli aborti a ben 101 famiglie. Da qui i famosi “Veleni in Procura” e il successivo fascicolo “Attacco alla Procura” e la storia che seguì.
Ma la giustizia penale non fu la sola a occuparsi del triangolo petrolchimico Priolo, Melilli, Augusta. Già la legge 426/98, prima delle varie inchieste aveva dichiarato la rada di Augusta e il territorio del Petrolchimico siracusano “Sito d’interesse nazionale ai fini di bonifica” (SIN Priolo). Restava da capire, però, a chi spettava sborsare i costi necessari per bonificare il territorio e il mare di tutta quell’enorme quantità di veleni. Malformazioni a parte, infatti, l’inquinamento rimane e tutte le società del petrolchimico siracusano vi hanno contribuito notevolmente in mezzo secolo d’industrializzazione selvaggia. Lo Stato voleva fargli pagare il conto salato, ma trova un’opposizione dura e basata sul principio: “poiché non è chiaro quanto ogni società ha inquinato, non si può stabilire in che modo spartire gli oneri della bonifica” e buonanotte ai suonatori. L’allora Ministro per l’Ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, aveva trovato un’altra soluzione pur di fare le bonifiche anche se una parte a carico di Pantalone. Siccome hanno inquinato tutti, paghino tutti i danni. Cioè una buona parte lo Stato e la rimanente somma le industrie, mettendo a disposizione nell’ottobre 2008, la somma 770 milioni di euro di denaro pubblico. La richiesta di pronunciamento della Corte di Giustizia europea, fatta dal Tar Sicilia in merito ai ricorsi di Erg Raffinerie Mediterranee, Eni/Polimeri Europa ed Eni/Syndial, analoghi a quelli fatti prima di Dow e Sasol, è precedente alla decisione del Ministero di far pagare la spesa sia alle industrie, sia ala collettività, quindi non fu presa in considerazione e ancora una volta buonanotte ai musicanti.

C’è da chiedersi se mai le bonifiche si faranno, visto che c’è un nuovo problema. Chi tira fuori i soldi; quindi non è detto che si possano fare anche con i finanziamenti aperti da parte dell’Europa perché il danno è enorme. Il dubbio sarebbe stato insinuato dalle stesse società che in origine avrebbero dovuto pagare per ripulire il fondale della Rada di Augusta. La risposta, con questi lustri di luna, è simile a quella scritta nelle cartelle dei condannati all’ergastolo alla voce fine pena: mai.
Il problema, scrivono i giudici amministrativi, è che sul fondo del mare c’è tanto di quel mercurio che se si prova a rimuoverlo, si rischia di rimetterlo in circolo e spargerlo ancora di più a causa delle correnti. Fu questa la motivazione tecnica giuridica dei magistrati del Tar chiamati in causa. La soluzione, secondo questa teoria, sarebbe più deleteria del male stesso. La cosa molto interessante, che si creda, oppure no, l’ipotesi del rimescolamento, è che il Tar ci ha creduto davvero; nella sentenza 1254 del 20 luglio 2007 si legge che la tipologia e le modalità degli interventi come imposti dal Ministero, sarebbero affidate a tecniche non efficienti, non efficaci e/o comunque irrealizzabili e come tali anche pericolosi per l’ambiente e per la salute umana. Ma non è proprio così. Peccato che il progetto del Rigassificatore nell’ambito della rada di Augusta non sia andato in porto; sarebbe stato un modo per scoprire, durante il necessario dragaggio per realizzarlo, in quella parte della Rada di Augusta dove sono ancora depositati i veleni nei fondali marini di quello specchio di mare dall’apparenza pulita, dove giace invece una montagna di veleni di be 18 milioni di metri cubi che sarebbero venuti a galla, e far capire così a tutti la vera portata del danno che hanno provocato le industrie in più di mezzo secolo d’inquinamento selvaggio, di traccheggi politici e di giochetti giudiziari in danno alla vita umana, alla flora, alla fauna e all’Ambiente in generale.
I segreti. Tutti hanno taciuto che la rada di Augusta fu dragata ben due volte: una prima volta negli Anni Settanta in maniera totale in occasione della crisi del Canal di Suez; per far entrare nel porto megarese le super petroliere sono stati scavati i fondale a quota meno 22, e la seconda volta negli Anni Novanta per eliminare degli scranni rocciosi e per fare un favore alle industrie dragando a ridosso dei rispettivi pontili di Esso e Agip, oltre ad abbassare i fondali nei pressi dell’imboccatura di Scirocco, su richiesta, formalmente, fatta dai Piloti del porto. I fanghi dragati misti a idrocarburi, veleni d’ogni genere e natura sommarono oltre 65 milioni di metri cubi nel totale che furono smaltiti a poche miglia dall’imboccatura principale della rada di Augusta, oltre agli oltre 18 milioni ancora nei fondali del porto megarese, per un totale tra dentro e fuori la rada di circa 85 milioni di metri cubi. Questa è la Storia, quella vera.
Con quest’articolo si può dire che solo ora viene fuori la verità; alla luce il vero o scandalo dell’inquinamento selvaggio nel mare circostante il territorio del petrolchimico siracusano, e mentre le discariche a terra insistono nel territorio tra Melilli, Priolo, Augusta e Villasmundo, che bene o male si può quantificare, oltre le abusive che sono circa un centinaio, ci troviamo di fronte, e a fatto compito, ad uno dei maggiori disastri ambientali non nucleari d’Europa.
Per oltre 70anni i colossi della chimica e della raffinazione, hanno seppellito veleni di ogni tipo, residui pericolosissimi della lavorazione industriale. Tonnellate di queste scorie contaminate sono state sversate direttamente nel mare della rada di Augusta e che una volta smaltito nel mare aperto si trovano tracce fino a Portopalo di Capo Passero. Poi ci sono i pozzi dell’acqua potabile contaminati e la falda acquifera inquinata, ma in questo caso nessuno pagherà. I processi in corso andranno in prescrizione matematica. Centinaia di migliaia di persone che quell’acqua avvelenata l’hanno usata per cucinare e bevuta regolarmente, e per un tempo enorme, vivono nell’angoscia di avere contratto qualche grave patologia. Ma per la gravità dei fatti accertati rimane acclarato, anche per l’avvelenamento aggravato, che è caduto o cadrà in prescrizione.
Sono stati analizzati più volte i referti, le schede di dimissioni ospedaliere e i certificati di morte, ma la situazione che ne emerge è di un’approssimazione ad orologeria da parte delle istituzioni in connubio con le lobby delle industrie. Bambini e adulti morti di tumore, rifiuti tossici dappertutto, cittadini che vogliono giustizia per i veleni nell’aria, ma non ricevono nemmeno il sostegno dei primi cittadini, dei sindaci dei comuni industriali, dove più di uno sono dipendenti delle raffinerie e altri compari di “fedeltà”; i residenti organizzati in gruppi, con i testa Antonio Alfò da Milano sono riusciti ad organizzare due manifestazioni a Siracusa contro l’inquinamento selvaggio; ma la risposta è stata il silenzio, anche in presenza di incombenze istituzionali dei sindaci che sono i responsabili della salute pubblica.
E questa una terra martoriata da incuria, abbandono e degrado. Ancora oggi si registra una forte contrapposizione tra i soggetti che a vario titolo, e non sempre sostenibile, dicono la loro, e non mancano le perplessità e i nodi da sciogliere. Un diritto per le popolazioni delle zone è di poter contare su una vita normale; ma questo qui, nell’inferno sulla terra, è negato e non sarà possibile.
1/Continua
Concetto Alota

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